Lo confesso: nonostante i sondaggi schiaccianti, fino all'ultimo ho sperato che Maverick McCain riuscisse nel suo disperato tentativo di rimonta. Questo non per particolare stima nei confronti di McCain (la verità è che in questa corsa alla Casa Bianca con l'uscita di scena forzata all'inizio di Rudy Giuliani i repubblicani si sono trovati spiazzati dovendo così convergere su un candidato "di seconda scelta"), ma perchè Barack Obama non riesco proprio a farmelo piacere. Di uno così istintivamente non mi fido. Obama è un fenomeno a due facce. Da una parte c'è l'immagine di grande presa mediatica e popolare dell'outsider, dell'uomo che si è fatto da solo, del "Kennedy nero" e via dicendo. Un'immagine secondo me più furbescamente studiata a tavolino che "naturale". Dall'altra ci sono quei 650 milioni di dollari su cui ha potuto contare per le spese della campagna elettorale. Un budget faraonico, assolutamente da record, nemmeno Bush aveva tanto. E il punto sta proprio qui: l'uomo non si è fatto poi così da solo, almeno in questo ultimo anno. Quei 650 milioni di dollari sono una cambiale che dovrà ripagare alle potenti lobbies che ad un certo punto hanno deciso di puntare su di lui (in parte mollando ad esempio la premiata ditta Clinton), consentendogli di "comprarsi" quell'appoggio dei media che ancora una volta si è rivelato decisivo per il risultato finale. McCain, per quello che ho già scritto, è stato lo "spiantato" di questa campagna elettorale. Pochi soldi rispetto all'"industria Obama". Solo il coraggio un po' spavaldo del "cane sciolto". Effetto Maverick, appunto. E questo all'ultimo, nella fase ormai più improbabile, me lo aveva reso pure molto simpatico. Obama ha fatto del "change" la sua bandiera. Uno slogan potente nella sua semplicità, efficace come lo sanno essere quelli di certi detersivi sul pubblico delle massaie. Ma la cambialona firmata in bianco alle lobbies è un macigno. Obama porta alla Casa Bianca anche i suoi potenti finanziatori. Loro hanno vinto puntando sul cavallo giusto, loro passeranno all'incasso, dettando le condizioni al neo-inquilino della White House. In questo senso davvero "no change" rispetto al passato, rispetto a certe pratiche di "affarismo politico". Obama come molti altri, più di molti altri. Del change almeno in questo il buon Barack ha preferito dimenticarsi. Detto tutto questo, vediamo pure stavolta dove sta uno dei grandi punti di forza del sistema americano: prima si possono anche dividere, ma, dopo che dal confronto democratico è uscita la scelta della maggioranza, la nazione ritrova sempre immediatamente la sua unità. A loro la guerra di secessione ha insegnato davvero qualcosa (che qui da noi invece dobbiamo ancora capire).
God bless America!
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