
Ormai da un anno in tutto il mondo il sistema finanziario traballa. Le falle si aprono sul fronte degli strumenti derivati. Se ne è spregiudicatamente abusato e ora i nodi vengono al pettine. Ci sono già state crisi conclamate (come nel caso della banca inglese Northern Rock o del gruppo americano Bear Stearns) e soprattutto ci sono rumors sinistri che riguardano diversi colossi di diversi Paesi (basta pensare a quelli davvero da brivido su alcuni colossi elvetici…). E in Italia? Qui di fatto sembra ancora che viviamo in una sorta di stato di immunità. Vicende aziendali drammatiche non ce ne sono state, salvo quella di Banca Italease, e banchieri e autorità varie finora hanno lanciato segnali rassicuranti. Da noi non è come in America o in altri Paesi, da noi non si è esagerato con la "finanza creativa": questo in sostanza è il messaggio che si vuole (ovviamente) far passare. Ma le cose non stanno proprio così. C'è un dato preciso su cui vale la pena di riflettere: l'Italia è la nazione europea più attiva nell'emissione di derivati; nel periodo 2004-2007 ne sono stati piazzati sul mercato ben 4.500 tipi, per oltre 200 miliardi di euro di investito (i numeri sono di un dossier di Exane derivates, gruppo Bnp Paribas). Altroché "diversi" dagli altri, i derivati "innescati" ci sono pure nel Belpaese. In quantità industriale. E non riguardano solo qualche amministrazione comunale come già qualche inchiesta ha ben raccontato. Quindi, se finora nessuna grande banca italiana è finita nei guai, come è successo invece a gruppi esteri, non è perché questo non possa tecnicamente succedere, non è perché il nostro sistema è estraneo al problema derivati. Semplicemente finora non è successo, ma può ancora succedere. Questo è il punto. E non pensiate che anche da noi non siano già circolati rumors pesantucci su qualche grossa realtà...
Etichette: derivati
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